17/11/09

Il Secco, di Elena G.

In cucina

Ancora buio. Sono tutti andati in vigna. Da un pezzo. Un’ora, mi sa. Tutti, eccetto l’Anna. O è l’Anita, che prima ciabattava in giro e che starà a casa con me, per oggi?
Sembra non si faccia mai mattina, di questa stagione. E poi quando è l’ora, il sole si rilassa sopra la siepe del giardino, oltre i vetri di questa finestra, tondo e sfumato alla mia vista, e si copre dei rami dell’ibisco quando, lento, si abbassa e muore.
Io ceno presto e poi vado a dormire, e quando mi sveglio alle quattro e le donne mi lavano e mi vestono e mi fanno scendere fino questa sedia di cucina, io resto ad aspettare, ma il buio dura ancora parecchio. Poi rischiara da dietro casa, il sole si apre, la luce arriva in questa fetta di cortile, si sente confusione di biciclette e parole basse di studenti verso la fermata, e è fatta mattina.
Sto seduto, accanto a questo tavolo, davanti a questi vetri con le tende aperte.
La casa ha rumori tutti suoi. Sono sicuro che se andassi nella cucina di un’altra casa sentirei rumori diversi. Muri che parlano con un accento differente, come nelle zone nostre, che ogni paese da qui a pochi chilometri ha già l’inflessione sua. Qui il legno dei mobili scricchiola, ma il legno della panca non è come quello della madia, e poi scricchiola solo in certe ore del giorno. Anche quel quadro, la sua cornice intagliata suona, fa una specie di sibilo quando si forma corrente d’aria tra la finestra aperta e la porta che gli sta di fianco, quella che va in ghiacciaia. Ma si sente poco, bisogna starci attenti, altrimenti il suono non lo senti. E poi c’è il lavello, e tutta la roba che ci sta appesa attorno. Casseruole, coperchi, teglie, padelle. E’ suono d’acqua, di gocciolio, di fresco. Il fuoco si fa sentire nella maniera sua. Fa un suono profumato.
I piedi sonno ancora attaccati alle caviglie. Non capisco come facciano, sembrano incollati con mastice invisibile colloso accanito. Li vedo di sfuggita, i miei piedi, quando le donne mi spogliano per lavarmi, due volte la settimana. Hanno un colore violaceo, le unghie sono gialle, la pelle ha macchie scure e solchi di vene blu. Non le ricordavo, io, una volta, le macchie e le vene raggrumate, e sì che magro secco lo sono sempre stato, ma la pelle era tirata, e spessa e densa. Adesso sembra uno straccio strizzato e appeso al filo dietro casa. Anche il mio cranio, il collo, le spalle, e tutto il resto, è bloccato, trattenuto fermo da un mastice, il solito mastice invisibile colloso accanito. Tiene i pezzi insieme, in un mucchio di ossa immobili sopra una sedia. E la bocca. Fatico ad aprirla. La mandibola si muove lenta, si sbottona pigra, manovra in ritardo, e fa muovere le labbra un poco. La lingua si sposta fiacca, o se ne sta ferma, annoiata. E la saliva sale sui denti, e poi esce sul mento. Il mastice, il solito mastice invisibile colloso accanito non ha bloccato del tutto le braccia, così mi asciugo. Male, magari, ma un poco ci riesco.
Alcune cose mi mancano, non dico nella memoria, mi mancano proprio perché non le ho più. Come il mio Mario. Non aveva mai fame. Era magro nella giacca di lanital. Per la colonia, quell’estate, partì e non tornò più. “La disciplina è arma di vittoria”, così gli dicevo. Riuscì a scrivere a casa un paio di lettere. Scritte pulite. Diceva di ore di ginnastica e acqua fredda. Non faceva commenti. Poi chiudeva, Alalà, viva il Duce, tuo figlio. Disciplina e niente vittoria, per lui. Il mio Mario. Quando si andò a riprenderlo, al sanatorio, era un corpo. Gli occhi chiusi. I capelli pettinati all’indietro, che a lui non piaceva. Le gambe nude e le ginocchia dritte. I piedi avevano unghie tagliate bene. Fuori era una giornata di sole, senza nuvole, faceva caldo. In giornate così, Mario lo vedevi legare e intrecciare scope sul prato dietro lo steccato che era tutto al sole. E non ha mai saputo che quando dormiva io sarei rimasto a guardarlo, e quando finalmente mangiava mi sentivo sazio anch’io.
Sto su questa sedia, da quanto? Tre anni? Tanti pezzi incollati dal solito mastice invisibile colloso accanito. Quattro ossa, qualche nervo, pochi muscoli, e la pelle appesa alle vene.


In camera

Se potessi, mi trasformerei in serpente. Stendere le spirali, scivolare molle, sgusciare via da queste lenzuola umide, scorrere sul pavimento fino a una crepa, una fessura, appiattirsi, guizzare fuori, all’aperto del cortile.
I rumori in camera da letto sono diversi da quelli di cucina. C’è il portalampade che sfrigola, pare le ali di una libellula. L’armadio sussurra se l’anta è un poco schiusa, non chiacchiera come il comodino. Lui fa il verso di un dondolio, poi ticchetta, come un orologio. Alla fine, tamburella. Dopo un poco, ricomincia il dondolio, e ancora il ticchettare e il tamburellare.
Ci dev’ essere qualcosa qua sotto, nella fetta di pavimento che il comodino copre. Io glielo indico, alle donne. Con lo sguardo, perché con la voce non mi riesce più. La mandibola si stacca di niente, ormai. Gli faccio capire, alle donne, che guardino bene, e nettino se c’è qualche sporco che attira i topi. Loro si abbassano, piegano la testa, scandagliano con gli occhi, e poi si rialzano, con l’espressione piatta, e dicono state buono che niente c’è. Ma non è vero. Io sento.
E poi c’è questo letto, che ha la parte dai piedi che si alza, così, tanto per fare, come a combinare uno scherzo. La rete e il materasso si piegano in due, e la parte della pediera si alza verso quella della testiera, e il letto diventa una grande V con me nel centro. Mi vedo le sagome dei piedi, sotto la coperta, che si alzano come due spettri. Allora mi lamento, e arriva una donna, e la pediera e la testiera e la rete e il materasso tornano giù di botto, e la donna mi dice ma che avete da urlare.
E adesso il tuo corpo d’aria mi viene a cercare. Ma come è successo che ti ho perduta, Susanna, eh? Perché ho lasciato che il mondo contasse di più? Sei morta da tempo, e mi guardi dalla porta. Mi vieni a cercare, attaccato a un letto che si piega. Là fuori, oltre il vetro, guarda anche tu. Ma che c’entra un cielo bello così? Che cosa ha a che fare con la puzza del mio corpo? Non sarebbe meglio la pioggia a dirotto, il buio, il vento forte?
Oddio, se solo potessi trasformarmi. Diventerei un serpente, sguscerei svelto e scivolerei fuori, in cortile. Me ne infischierei di tutto. Nessun ricordo, nessun colore, nessuna lingua con cui parlare e nessun silenzio di cui vergognarmi.
Se solo potessi morire con la faccia al sole, questo corpo di pezzi incollati lasciati al vento, io sarei felice. Mamma mi strofinerebbe. Mi crederebbe ancora bambino, e mi toglierebbe la muffa che ho addosso. Se solo potessi morire là fuori. Invece di avere aperti questi occhi su quella finestra con le tende accostate. Dovrei forse, che ne so, chiuderli, e restare a immaginare. Immaginare e accontentarmi. Immaginare quello che non ho avuto. Serpente mancato.

6 commenti:

Unknown ha detto...

ecco, Elena, farmi piangere a quest'ora c'è dell'illegale, secondo me! :)

Anonimo ha detto...

mi sembra di leggere di mio nonno e di mia nonna. in alcune parti uno. in altre parti l'altra. quoto sid. sono commosso anche io.
A.

john ha detto...

E' un post che mi riempie di ricordi
Complimenti Elena dire che scrivi magnificamente è riduttivo

Anonimo ha detto...

l'idea di Sid di pubblicare alcune mie cose qui, e farle leggere a voi, mi inorgoglisce. Grazie dei vostri commenti. Riuscire a commuovere con le parole, o a divertire, a seconda dei casi, mi riempie di soddisfazione. In fondo, provocare questi sentimenti in chi legge è il vero senso del mio scrivere.
elena

mastrangelina ha detto...

@elena, è bellissimo non ti so dire altro, davvero.

fatacarabina ha detto...

chapeau. Madame, un giorno ci conosceremo, sarà bello stringerti la mano