30/01/10

Il momento, di Elena G.


Nel quartiere Arbat di Mosca, la breve galleria del Volny Centrum era occupata da tavoli e sedie. Alcune persone in piedi, in attesa di trovare posto al ristorante, sostavano attorno ai tavoli, e lasciavano libera l’entrata a un fioraio e all’accesso a una rampa di scale mobili, che saliva direttamente dalla metropolitana.
Seduta al tavolo, sulle ginocchia di suo padre, Lisa osservava che le persone salivano dalla rampa su gradini che si muovevano da soli.
Il papà le accarezzava i capelli sfuggiti all’elastico dei codini, e chiacchierava al cellulare. Parlava a uno che chiamava Opresky, e Lisa capì che doveva essere il tipo che papà era venuto qui per incontrare, quello che era stato a casa loro quando era quasi Natale, e che non era piaciuto alla mamma perché, diceva, aveva aloni sotto le ascelle, e puzzava. Il papà invece ci si trovava bene, perché ci parlava sempre al telefono, e diceva che si facevano i soldi con la scarpe che gli vendeva dalla fabbrica nuova.
Lisa aveva finito la carne e le patate. Sfregò con il tovagliolo una goccia di sugo dalla felpa. Era finita sul nero dei capelli di Biancaneve che adesso sembravano bagnati. Davanti al tavolo c’erano un uomo e una donna in piedi. Si tenevano per mano. Erano appena arrivati dai gradini che salivano da soli. Il papà continuava a parlare al cellulare. Lei voleva alzarsi, e provare quei gradini. “Papà” disse tirandogli la manica del maglione “Papà, posso fare un giro sulle scale che vanno da sole?” Lui la guardò, fece un cenno.
Lei scivolò dalle sue ginocchia dimenticando la giacca a vento sullo schienale dello sedia, e sgattaiolò via.
Posò una alla volta le sue scarpe da ginnastica sul primo gradino di ferro, mise la mano sulla plastica nera del corrimano. I gradini scesero fino a un atrio con una macchia su un muro. Si voltò a cercare le scale che risalivano, ma vide solo una rampa di gradini molto ripidi, e fermi. Dall’altra parte dell’atrio vide i gradini che salivano da soli.
Attraversò l’atrio di corsa, urtando con il braccio la borsa di tela di un uomo che le urlò contro nella sua lingua strana.
Raggiunse la scala. Saltò sul primo gradino di ferro, che saliva lento dopo un altro uguale. Davanti a lei un ragazzo stava dritto al centro e non si teneva sul corrimano. Aveva un buco sul fianco del giaccone, si vedeva l’imbottitura di piume. Forse non aveva una nonna che sapeva cucire. L’aria fredda che veniva da sopra le ricordò che aveva lasciato la sua giacca sullo schienale della sedia. La salita finì su un atrio largo. C’erano corridoi illuminati da luci al neon, e muri pieni di tabelloni. Si girò intorno, ma non vide scale che riscendevano verso l’atrio con la macchia su un muro. Doveva fare le scale alla rovescia? E se la vedeva qualcuno? Magari la sgridavano, come l’uomo della borsa. Meglio cercare altri gradini che scendevano, andare dal papà e prendere la giacca. Faceva freddo. I gradini dovevano essere dopo quei corridoi. Ne prese uno, quello dov’era entrato il ragazzo con il buco sulla giacca. Dopo pochi metri, sbucò davanti a scalini larghi e fermi. “Peccato,” pensò, “ma non importa anche se non vanno da soli”. Scese le scale, e si trovò all’esterno. Davanti a lei c’era una strada larga e lunga, luci di auto, e lampioni. Dov’era finito il ristorante? Sentì il cuore battere forte. Non voleva tornare indietro, quei corridoi la confondevano. E poi c’era quella stradina, tra due edifici. Somigliava alla stradina dove c’era l’albergo. Aveva gli stessi alberi sul lato del marciapiedi. “Ecco”, pensò. “Adesso torno in albergo e trovo il papà. Oppure prendo l’ascensore da sola, e vado davanti alla nostra porta. E’ al piano tre”. Il ricordo della porta bianca le fece sentire mancanza intensa del papà. Ma non c’era motivo per sentirsi spaventata. Non doveva esserci. Ingoiò un groppo di saliva.
Raggiunse la stradina tra gli edifici. Camminò senza guardare le facce delle persone che incrociava, come quando raggiungeva la casa della nonna alla fine della sua stradina, sapendo bene dov’era e dove andava. Il cuore le batteva forte. La luce delle grosse lampade appese ai muri dei palazzi era gialla, e faceva capire il buio che c’era intorno. Lisa camminò più forte. Voleva entrare al caldo. Ma la strada non finiva mai, e l’entrata dell’albergo non c’era. Vide una casa con le finestre grandi e con le grate grosse, come quelle del convento delle suore che non escono mai e pregano sempre. La mamma non vuole che lei e Renato colpiscano le grate con il pallone quando giocano a guerra mondiale sul prato dietro alla chiesetta del Santo, sennò si disturba. Il ricordo della mamma le fece venire il bisogno di piangere. E adesso le lacrime arrivarono agli occhi. Lisa si appoggiò alla parete dell’edificio sotto una finestra, e si prese il viso tra le mani. Pianse singhiozzando. Perché il papà non la trovava? Avrebbe dovuto stare attento, non lasciare che lei uscisse così, da sola, senza controllarla. Lei era solo una bambina. Aveva cinque anni, era piccola. La mamma lo diceva sempre, che lei era solo una bambina. Lo aveva detto anche quando li aveva salutati all’aeroporto per quel viaggio che papà doveva proprio fare. La mamma doveva andare in un’altra città, anche lei in aereo, ma là non poteva portarla, perché era complicato, e lei era solo una bambina. Le finestre le ricordarono che non era in una foresta. “Qualcuno potrebbe portarmi dal papà” pensò. “Anche rubarmi, però”. Il pensiero le fece sentire le lacrime bruciare agli angoli degli occhi. Adesso non passava nessuno. Meglio. La mamma diceva che mai bisognava parlare con gli sconosciuti, e anche suor Clementina lo diceva quando dei grandi si avvicinavano alla recinzione dell’asilo, e anche la zia Antonella quando erano andate in gita al lago. Qui erano sconosciuti tutti. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Si accorse di tremare per il freddo. “Non devo tremare”, pensò. “Se tremo e piango è troppo brutto, vuol dire che è davvero troppo brutto”. Sentì passi in fondo alla strada. Vide in controluce la sagoma alta di un uomo. Camminava dondolando, come i mostri dei cartoni animati. Dall’altra parte della strada vide un cancello aperto su un giardino. C’era un vialetto illuminato da lampioni.
Attraversò di corsa la strada vuota e raggiunse il giardino. Era tutto fermo e tranquillo. Oltre i bordi del vialetto, i cespugli e l’erba erano macchie scure. Si accorse di continuare a tremare, e che le scappava la pipì.
Si allontanò al buio sull’erba, verso un cespuglio rotondo, come quello davanti al portico che il nonno potava a forma di pallone, e gli passò dietro. Calò mutandine e pantaloni con uno stesso gesto. Voleva fare presto. Fece attenzione allargando i piedi, e si liberò. Si rialzò nel buio e si accorse di una panchina vicina al cespuglio.
La raggiunse, si accovacciò sotto al sedile stringendosi alle ginocchia. “Papà” sentì la sua voce uscirle dalla bocca. “Papà!”
Si sciolse in un pianto sconsolato, singhiozzò forte scossa da tremiti. Nessuno passava, nessuno la sentiva. Un’ora dopo, sfinita, si addormentò sotto la panchina. Sognò di essere sul suo letto, nella sua cameretta, e di sentire qualcosa di duro dentro al materasso che usciva da sotto, e le faceva male alla schiena. Si girò e rigirò, finché aprì gli occhi per capire. Si tirò su con un braccio, sentì sul viso un tepore umido, e alla luce del giorno vide il muso di un cane abbassato verso di lei. Era bianco, e cercava di leccarle il naso.

8 commenti:

Unknown ha detto...

diobono Elena... grazie!

Anonimo ha detto...

diobono Sid... grazie a te!
Elena G.

Claire ha detto...

da brividi... bello

andrea 403 ha detto...

Brava elena, complimenti, sembra davvero di essere lì con lisa, sembra davvero di essere lisa...

stressa ha detto...

Da madre ti dico "che ansia però!"

Jose Ramon Santana Vazquez ha detto...

...traigo
sangre
de
la
tarde
herida
en
la
mano
y
una
vela
de
mi
corazón
para
invitarte
y
darte
este
alma
que
viene
para
compartir
contigo
tu
bello
blog
con
un
ramillete
de
oro
y
claveles
dentro...


desde mis
HORAS ROTAS
Y AULA DE PAZ


TE SIGO TU BLOG




CON saludos de la luna al
reflejarse en el mar de la
poesía...


AFECTUOSAMENTE
(SA,A)

DESEANDOOS UNAS FIESTAS ENTRAÑABLES OS DESEO FELIZ AÑO NUEVO 2010 Y ESPERO OS AGRADE EL POST POETIZADO DE LA CONQUISTA DE AMERICA CRISOL Y EL DE CREPUSCULO.

José
ramón...

Velvet ha detto...

Ho seguito anch’ io la piccola
Ε mi sono allontanato per un po
Μa poi sono ritornato…a casa..
La Lisa quando ritornera

Buon mese aperol

peppermind ha detto...

Bello come è reso "naturale" il perdersi, quando invece dalla parte dei genitori è incomprensibile come possa accadere, un momento prima era lì, poi...

Complimenti