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09/11/10

il giorno perfetto 2, di Elena G.

Casa Anni Azzurri
26.9.2010

Io non scrivo due righe da un sacco di tempo. Mai stato bravo. Io manco me li ricordo dei pensieri miei buttati giù scritti. Una lettera da militare alla morosa, mi sa, e neanche era una gran lettera.
Il fatto è che piscio in un catetere, ho vuoti di memoria, la prostata gonfia. E così a spanne mi manca poco per un ictus: mi va di fissare una cosa, prima.
Ieri mattina è venuta mia nipote Lia. L'aspettavo per chiederle una cosa. Allora lei mi ha legato una sciarpa, perchè sul tetto tira aria. Sa far le cose, la Lia.
Sopra, mi ha girato controvento, e me l'ha passata. Una sigaretta. Una sola. Sono andato lento.
Erano anni.
E' rimasto un mozzicone.
Poi siamo scesi perchè sappiamo i controlli. L'infermiere che mi sta addosso, un siciliano che di nome fa Rocco o Salvo, se non mi vede dice "Manca il vecchio Giusì, ma dove minchia è?". L' ho fregato. Son soddisfazioni.

08/04/10

La lettera, di Elena G.

La consegna era a Peabody Terrace, 194.
Il marciapiede era un acciottolato ripido. Si respirava odore di salsedine.
Tod si schermò gli occhi rivolto al mare. Da lontano, bagliori bianchi si staccavano dalla superficie dell’acqua. Più in qua, lungo il marciapiede, si stagliava una villa bassa, senza recinzione, sul davanti una piscina che ne occupava quasi per intero il giardino. Una donna in bikini era stesa al sole sulla breve pavimentazione in pietra.
Passò oltre. Sopra un cancello alto di metallo compatto, accanto a un altro, uguale, lesse 194.
Erano i cancelli di due ville, identiche e speculari.
Decise di suonare al primo.
Il campanello vibrò sotto al suo dito. Una, due, tre volte. Ricordò della donna al sole. Dovrei forse chiamarla dalla strada, pensò.
Sentì un ciabattare pigro sulla pietra.
“Chi è?” una voce di donna arrivò da dietro al cancello.
“TNT Spedizioni. Raccomandata” Si accorse di aver parlato atono e in fretta. Gli piaceva quando gli riusciva di sembrare professionale.
La voce dietro al cancello taceva. Aspettò qualche istante.
“C’è qualcuno?” chiese poi.
Silenzio.
“Ho una raccomandata da consegnare”
Sentì un tonfo, come di un corpo che cade. Poi un pianto a dirotto. Guardò istintivamente la base del cancello.
“Signora?”
Il pianto era ininterrotto.
“Se vuole torno dopo”
“No” disse la voce impastata.
“Devo consegnare una raccomandata”
Sentì tirare su con il naso.
“Facciamo nel pomeriggio?” chiese.
“No, no. La lettera…”
“Allora, se apre..”
Silenzio.
“Me la legga lei” chiese debole la voce.
“Ha detto, scusi?”
“La legga lei. Io non posso, non ce la faccio”
“Cosa? Ma no…”
Pianto.
“Non posso”
Ancora pianto.
“Se gliela leggesse, che ne so, sua sorella?”
“Quale sorella? Io vivo sola”
“Ma non sono mica autorizzato, io!”
Il pianto a dirotto riprese.
“Non posso mica, sa”
Singhiozzi.
Tod sospirò.
“La prego, l’autorizzo, apra e legga” disse in fretta la voce.
Si chinò verso il cancello. Sospirò forte.
“Ma poi se la prende”
“Certo, certo” disse la voce.
Tolse il sigillo TNT e con un dito aprì la busta che si stracciò sui bordi.
“E’ lunga?” chiese piano la voce.
“Lunga? Oddio, beh, no” rispose Tod buttando gli occhi sulle uniche tre righe. “E’ pronta?”
La voce fece alto un lamento.
Ma perché gliel’ ho chiesto, pensò Tod sbuffando.
“Quando vuole, io attacco”
“Sì” ripose docile la voce. “Legga” e fece un sospiro.
“Scusa il silenzio…”
“Bastardo” la voce era tagliente.
Come fanno le donne a cambiare umore così, pensò Tod. “Continuo?” chiese.
“E certo. Che vuole fare, fermarsi all’inizio?” la voce suonava aspra.
Si schiarì la gola. “Scusa il silenzio, ma davvero non ho altro da dire di diverso da quanto ti ho già detto…” Fece una pausa, ascoltò, prese fiato. “Non possiamo essere una coppia felice, ormai lo sai anche tu. Non dimentico, però, il bimbo che porti in grembo. Farò il mio dovere, se me lo permetterai. Abbi cura di te”.
Restò in silenzio, dietro al cancello anche la voce taceva.
La serratura scattò. Tod si mise in piedi. Davanti a lui, una donna in bikini con gli occhi gonfi lo guardava incredula.
“Quale bimbo?” chiese secca.
In quell’istante il cancello gemello scattò. Uscì una ragazza bruna.
“Salve” salutò in un sorriso. Aveva l’addome gonfio e alto, un nastro allacciava la base del seno, e scivolava su un lato.
“Salve” farfugliò la donna.
La figura si allontanò come fluttuando sul marciapiedi. Camminava svelta nel suo vestito ampio.
Tod si voltò verso la donna al cancello. Lo guardava fisso, stralunata. Poi le spalle le si alzarono in un respiro profondo, e un raggiante sorriso le illuminò il viso arrossato. Sparì di fretta dietro al cancello. Si sentì uno strillo allegro, il suono elastico di un trampolino, un tuffo.
Si incamminò lento, davanti a lui la donna bruna era già lontana.

30/01/10

Il momento, di Elena G.


Nel quartiere Arbat di Mosca, la breve galleria del Volny Centrum era occupata da tavoli e sedie. Alcune persone in piedi, in attesa di trovare posto al ristorante, sostavano attorno ai tavoli, e lasciavano libera l’entrata a un fioraio e all’accesso a una rampa di scale mobili, che saliva direttamente dalla metropolitana.
Seduta al tavolo, sulle ginocchia di suo padre, Lisa osservava che le persone salivano dalla rampa su gradini che si muovevano da soli.
Il papà le accarezzava i capelli sfuggiti all’elastico dei codini, e chiacchierava al cellulare. Parlava a uno che chiamava Opresky, e Lisa capì che doveva essere il tipo che papà era venuto qui per incontrare, quello che era stato a casa loro quando era quasi Natale, e che non era piaciuto alla mamma perché, diceva, aveva aloni sotto le ascelle, e puzzava. Il papà invece ci si trovava bene, perché ci parlava sempre al telefono, e diceva che si facevano i soldi con la scarpe che gli vendeva dalla fabbrica nuova.
Lisa aveva finito la carne e le patate. Sfregò con il tovagliolo una goccia di sugo dalla felpa. Era finita sul nero dei capelli di Biancaneve che adesso sembravano bagnati. Davanti al tavolo c’erano un uomo e una donna in piedi. Si tenevano per mano. Erano appena arrivati dai gradini che salivano da soli. Il papà continuava a parlare al cellulare. Lei voleva alzarsi, e provare quei gradini. “Papà” disse tirandogli la manica del maglione “Papà, posso fare un giro sulle scale che vanno da sole?” Lui la guardò, fece un cenno.
Lei scivolò dalle sue ginocchia dimenticando la giacca a vento sullo schienale dello sedia, e sgattaiolò via.
Posò una alla volta le sue scarpe da ginnastica sul primo gradino di ferro, mise la mano sulla plastica nera del corrimano. I gradini scesero fino a un atrio con una macchia su un muro. Si voltò a cercare le scale che risalivano, ma vide solo una rampa di gradini molto ripidi, e fermi. Dall’altra parte dell’atrio vide i gradini che salivano da soli.
Attraversò l’atrio di corsa, urtando con il braccio la borsa di tela di un uomo che le urlò contro nella sua lingua strana.
Raggiunse la scala. Saltò sul primo gradino di ferro, che saliva lento dopo un altro uguale. Davanti a lei un ragazzo stava dritto al centro e non si teneva sul corrimano. Aveva un buco sul fianco del giaccone, si vedeva l’imbottitura di piume. Forse non aveva una nonna che sapeva cucire. L’aria fredda che veniva da sopra le ricordò che aveva lasciato la sua giacca sullo schienale della sedia. La salita finì su un atrio largo. C’erano corridoi illuminati da luci al neon, e muri pieni di tabelloni. Si girò intorno, ma non vide scale che riscendevano verso l’atrio con la macchia su un muro. Doveva fare le scale alla rovescia? E se la vedeva qualcuno? Magari la sgridavano, come l’uomo della borsa. Meglio cercare altri gradini che scendevano, andare dal papà e prendere la giacca. Faceva freddo. I gradini dovevano essere dopo quei corridoi. Ne prese uno, quello dov’era entrato il ragazzo con il buco sulla giacca. Dopo pochi metri, sbucò davanti a scalini larghi e fermi. “Peccato,” pensò, “ma non importa anche se non vanno da soli”. Scese le scale, e si trovò all’esterno. Davanti a lei c’era una strada larga e lunga, luci di auto, e lampioni. Dov’era finito il ristorante? Sentì il cuore battere forte. Non voleva tornare indietro, quei corridoi la confondevano. E poi c’era quella stradina, tra due edifici. Somigliava alla stradina dove c’era l’albergo. Aveva gli stessi alberi sul lato del marciapiedi. “Ecco”, pensò. “Adesso torno in albergo e trovo il papà. Oppure prendo l’ascensore da sola, e vado davanti alla nostra porta. E’ al piano tre”. Il ricordo della porta bianca le fece sentire mancanza intensa del papà. Ma non c’era motivo per sentirsi spaventata. Non doveva esserci. Ingoiò un groppo di saliva.
Raggiunse la stradina tra gli edifici. Camminò senza guardare le facce delle persone che incrociava, come quando raggiungeva la casa della nonna alla fine della sua stradina, sapendo bene dov’era e dove andava. Il cuore le batteva forte. La luce delle grosse lampade appese ai muri dei palazzi era gialla, e faceva capire il buio che c’era intorno. Lisa camminò più forte. Voleva entrare al caldo. Ma la strada non finiva mai, e l’entrata dell’albergo non c’era. Vide una casa con le finestre grandi e con le grate grosse, come quelle del convento delle suore che non escono mai e pregano sempre. La mamma non vuole che lei e Renato colpiscano le grate con il pallone quando giocano a guerra mondiale sul prato dietro alla chiesetta del Santo, sennò si disturba. Il ricordo della mamma le fece venire il bisogno di piangere. E adesso le lacrime arrivarono agli occhi. Lisa si appoggiò alla parete dell’edificio sotto una finestra, e si prese il viso tra le mani. Pianse singhiozzando. Perché il papà non la trovava? Avrebbe dovuto stare attento, non lasciare che lei uscisse così, da sola, senza controllarla. Lei era solo una bambina. Aveva cinque anni, era piccola. La mamma lo diceva sempre, che lei era solo una bambina. Lo aveva detto anche quando li aveva salutati all’aeroporto per quel viaggio che papà doveva proprio fare. La mamma doveva andare in un’altra città, anche lei in aereo, ma là non poteva portarla, perché era complicato, e lei era solo una bambina. Le finestre le ricordarono che non era in una foresta. “Qualcuno potrebbe portarmi dal papà” pensò. “Anche rubarmi, però”. Il pensiero le fece sentire le lacrime bruciare agli angoli degli occhi. Adesso non passava nessuno. Meglio. La mamma diceva che mai bisognava parlare con gli sconosciuti, e anche suor Clementina lo diceva quando dei grandi si avvicinavano alla recinzione dell’asilo, e anche la zia Antonella quando erano andate in gita al lago. Qui erano sconosciuti tutti. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Si accorse di tremare per il freddo. “Non devo tremare”, pensò. “Se tremo e piango è troppo brutto, vuol dire che è davvero troppo brutto”. Sentì passi in fondo alla strada. Vide in controluce la sagoma alta di un uomo. Camminava dondolando, come i mostri dei cartoni animati. Dall’altra parte della strada vide un cancello aperto su un giardino. C’era un vialetto illuminato da lampioni.
Attraversò di corsa la strada vuota e raggiunse il giardino. Era tutto fermo e tranquillo. Oltre i bordi del vialetto, i cespugli e l’erba erano macchie scure. Si accorse di continuare a tremare, e che le scappava la pipì.
Si allontanò al buio sull’erba, verso un cespuglio rotondo, come quello davanti al portico che il nonno potava a forma di pallone, e gli passò dietro. Calò mutandine e pantaloni con uno stesso gesto. Voleva fare presto. Fece attenzione allargando i piedi, e si liberò. Si rialzò nel buio e si accorse di una panchina vicina al cespuglio.
La raggiunse, si accovacciò sotto al sedile stringendosi alle ginocchia. “Papà” sentì la sua voce uscirle dalla bocca. “Papà!”
Si sciolse in un pianto sconsolato, singhiozzò forte scossa da tremiti. Nessuno passava, nessuno la sentiva. Un’ora dopo, sfinita, si addormentò sotto la panchina. Sognò di essere sul suo letto, nella sua cameretta, e di sentire qualcosa di duro dentro al materasso che usciva da sotto, e le faceva male alla schiena. Si girò e rigirò, finché aprì gli occhi per capire. Si tirò su con un braccio, sentì sul viso un tepore umido, e alla luce del giorno vide il muso di un cane abbassato verso di lei. Era bianco, e cercava di leccarle il naso.

24/11/09

Detto tra noi, di Elena G.


Ti incrocio nei ricordi, e dei pensieri ormai ultimi ti faccio compagno.
Eccomi.
Ce l’ ho fatta a salire il tratto alto del sentiero, a piedi. Mi ha aiutata questo bastone, e la feroce tenacia che testimoniano i miei anni. La mia auto è sotto, accanto alla cascina. Quel casolare sulla curva, dove finisce la piana. Ha muri scrostati, e scuri slavati da nebbie e piogge. Dal suo cortile un tempo partiva l’abbaiare di un cane, ricordi? Ne sentivamo l’eco. Ribadiva che eravamo isolati, clandestini, e soli.
Ci sei? Ricordi questa altura? Incuneata ai piedi del fianco gobbo della collina, sembra l’avvio di un’onda, nascosta al paese dal verde delle vigne.
Io arrivavo per prima, risalendo il sentiero sul crinale, in ore deserte. Tu salivi dalla valle bassa, arrampicandoti per il bosco. Io con sandali dai tacchi sbagliati, tu con scarpe sfinite e chiuse da lacci lisi.
Ti aspettavo qui, fiera. Sedevo all’ombra di una grande pianta su questo punto, ora pietroso. Appoggiata al tronco, guardavo il fitto del bosco che un tempo c’era, e ora non più. Indossavo sempre un vestito leggero, e sottile, e rosso, così sapevo mi avresti scorta da lontano.
Ti indovinavo salire sotto il verde compatto degli alberi, il tuo passo e i tuoi gesti accompagnati da rumore di rami e foglie.
Sbucavi accaldato, con le maniche della camicia arrotolate sopra i gomiti, con una mano allontanavi dal viso un insetto, spesso un’ape.
Mi cercavi con gli occhi, e sorridevi, buono.
Non volevi parole, ma non chiedevi silenzio.
Ricordo odore di vigna, e di fieno, e di legno.
E poi ci lasciavamo, senza commenti, senza promesse, per tornare ai modi nostri. Io, altera, alla mia vita su tacchi alti, tu a inseguire, ruvido, un posto inevitabile e distante, precluso a me.
Sei partito all’improvviso, negando spiegazioni e commenti. Avevi rintracciato una strada per te, e l’ hai scelta, aspro e silenzioso.
Guardami. La mia pelle solcata dagli anni tu non l’ hai mai vista. Lei è il tempo che non abbiamo avuto. Il tempo che tu non hai voluto più, e che ha fatto il lavoro suo. Ha attutito, alleviato, ricomposto. E ha lasciato intatto quello che cristallino era, e rimane.
Adesso riscenderò il sentiero, tornerò a una pianura ampia e lontana.
Ma lì chiuderò gli occhi, per immaginare ancora una valle breve, e aspettare. Ci sarà il tronco ruvido di una pianta con una chioma enorme, e un abito leggero e rosso, per me, e un bosco in salita, da cui sentirti arrivare.

Elena G.

17/11/09

Il Secco, di Elena G.

In cucina

Ancora buio. Sono tutti andati in vigna. Da un pezzo. Un’ora, mi sa. Tutti, eccetto l’Anna. O è l’Anita, che prima ciabattava in giro e che starà a casa con me, per oggi?
Sembra non si faccia mai mattina, di questa stagione. E poi quando è l’ora, il sole si rilassa sopra la siepe del giardino, oltre i vetri di questa finestra, tondo e sfumato alla mia vista, e si copre dei rami dell’ibisco quando, lento, si abbassa e muore.
Io ceno presto e poi vado a dormire, e quando mi sveglio alle quattro e le donne mi lavano e mi vestono e mi fanno scendere fino questa sedia di cucina, io resto ad aspettare, ma il buio dura ancora parecchio. Poi rischiara da dietro casa, il sole si apre, la luce arriva in questa fetta di cortile, si sente confusione di biciclette e parole basse di studenti verso la fermata, e è fatta mattina.
Sto seduto, accanto a questo tavolo, davanti a questi vetri con le tende aperte.
La casa ha rumori tutti suoi. Sono sicuro che se andassi nella cucina di un’altra casa sentirei rumori diversi. Muri che parlano con un accento differente, come nelle zone nostre, che ogni paese da qui a pochi chilometri ha già l’inflessione sua. Qui il legno dei mobili scricchiola, ma il legno della panca non è come quello della madia, e poi scricchiola solo in certe ore del giorno. Anche quel quadro, la sua cornice intagliata suona, fa una specie di sibilo quando si forma corrente d’aria tra la finestra aperta e la porta che gli sta di fianco, quella che va in ghiacciaia. Ma si sente poco, bisogna starci attenti, altrimenti il suono non lo senti. E poi c’è il lavello, e tutta la roba che ci sta appesa attorno. Casseruole, coperchi, teglie, padelle. E’ suono d’acqua, di gocciolio, di fresco. Il fuoco si fa sentire nella maniera sua. Fa un suono profumato.
I piedi sonno ancora attaccati alle caviglie. Non capisco come facciano, sembrano incollati con mastice invisibile colloso accanito. Li vedo di sfuggita, i miei piedi, quando le donne mi spogliano per lavarmi, due volte la settimana. Hanno un colore violaceo, le unghie sono gialle, la pelle ha macchie scure e solchi di vene blu. Non le ricordavo, io, una volta, le macchie e le vene raggrumate, e sì che magro secco lo sono sempre stato, ma la pelle era tirata, e spessa e densa. Adesso sembra uno straccio strizzato e appeso al filo dietro casa. Anche il mio cranio, il collo, le spalle, e tutto il resto, è bloccato, trattenuto fermo da un mastice, il solito mastice invisibile colloso accanito. Tiene i pezzi insieme, in un mucchio di ossa immobili sopra una sedia. E la bocca. Fatico ad aprirla. La mandibola si muove lenta, si sbottona pigra, manovra in ritardo, e fa muovere le labbra un poco. La lingua si sposta fiacca, o se ne sta ferma, annoiata. E la saliva sale sui denti, e poi esce sul mento. Il mastice, il solito mastice invisibile colloso accanito non ha bloccato del tutto le braccia, così mi asciugo. Male, magari, ma un poco ci riesco.
Alcune cose mi mancano, non dico nella memoria, mi mancano proprio perché non le ho più. Come il mio Mario. Non aveva mai fame. Era magro nella giacca di lanital. Per la colonia, quell’estate, partì e non tornò più. “La disciplina è arma di vittoria”, così gli dicevo. Riuscì a scrivere a casa un paio di lettere. Scritte pulite. Diceva di ore di ginnastica e acqua fredda. Non faceva commenti. Poi chiudeva, Alalà, viva il Duce, tuo figlio. Disciplina e niente vittoria, per lui. Il mio Mario. Quando si andò a riprenderlo, al sanatorio, era un corpo. Gli occhi chiusi. I capelli pettinati all’indietro, che a lui non piaceva. Le gambe nude e le ginocchia dritte. I piedi avevano unghie tagliate bene. Fuori era una giornata di sole, senza nuvole, faceva caldo. In giornate così, Mario lo vedevi legare e intrecciare scope sul prato dietro lo steccato che era tutto al sole. E non ha mai saputo che quando dormiva io sarei rimasto a guardarlo, e quando finalmente mangiava mi sentivo sazio anch’io.
Sto su questa sedia, da quanto? Tre anni? Tanti pezzi incollati dal solito mastice invisibile colloso accanito. Quattro ossa, qualche nervo, pochi muscoli, e la pelle appesa alle vene.


In camera

Se potessi, mi trasformerei in serpente. Stendere le spirali, scivolare molle, sgusciare via da queste lenzuola umide, scorrere sul pavimento fino a una crepa, una fessura, appiattirsi, guizzare fuori, all’aperto del cortile.
I rumori in camera da letto sono diversi da quelli di cucina. C’è il portalampade che sfrigola, pare le ali di una libellula. L’armadio sussurra se l’anta è un poco schiusa, non chiacchiera come il comodino. Lui fa il verso di un dondolio, poi ticchetta, come un orologio. Alla fine, tamburella. Dopo un poco, ricomincia il dondolio, e ancora il ticchettare e il tamburellare.
Ci dev’ essere qualcosa qua sotto, nella fetta di pavimento che il comodino copre. Io glielo indico, alle donne. Con lo sguardo, perché con la voce non mi riesce più. La mandibola si stacca di niente, ormai. Gli faccio capire, alle donne, che guardino bene, e nettino se c’è qualche sporco che attira i topi. Loro si abbassano, piegano la testa, scandagliano con gli occhi, e poi si rialzano, con l’espressione piatta, e dicono state buono che niente c’è. Ma non è vero. Io sento.
E poi c’è questo letto, che ha la parte dai piedi che si alza, così, tanto per fare, come a combinare uno scherzo. La rete e il materasso si piegano in due, e la parte della pediera si alza verso quella della testiera, e il letto diventa una grande V con me nel centro. Mi vedo le sagome dei piedi, sotto la coperta, che si alzano come due spettri. Allora mi lamento, e arriva una donna, e la pediera e la testiera e la rete e il materasso tornano giù di botto, e la donna mi dice ma che avete da urlare.
E adesso il tuo corpo d’aria mi viene a cercare. Ma come è successo che ti ho perduta, Susanna, eh? Perché ho lasciato che il mondo contasse di più? Sei morta da tempo, e mi guardi dalla porta. Mi vieni a cercare, attaccato a un letto che si piega. Là fuori, oltre il vetro, guarda anche tu. Ma che c’entra un cielo bello così? Che cosa ha a che fare con la puzza del mio corpo? Non sarebbe meglio la pioggia a dirotto, il buio, il vento forte?
Oddio, se solo potessi trasformarmi. Diventerei un serpente, sguscerei svelto e scivolerei fuori, in cortile. Me ne infischierei di tutto. Nessun ricordo, nessun colore, nessuna lingua con cui parlare e nessun silenzio di cui vergognarmi.
Se solo potessi morire con la faccia al sole, questo corpo di pezzi incollati lasciati al vento, io sarei felice. Mamma mi strofinerebbe. Mi crederebbe ancora bambino, e mi toglierebbe la muffa che ho addosso. Se solo potessi morire là fuori. Invece di avere aperti questi occhi su quella finestra con le tende accostate. Dovrei forse, che ne so, chiuderli, e restare a immaginare. Immaginare e accontentarmi. Immaginare quello che non ho avuto. Serpente mancato.

09/11/09

Il Giorno Perfetto, di Elena G.

Da ragazza abitavo tra un querceto e i binari di una ferrovia.
Il passaggio dei treni dava l’ora a mia madre, che e si regolava con littorine, treni merci e campane.
Non mi facevano studiare, non c’erano soldi. Ero a servizio presso un pittore. Mi chiedeva di spolverare, specie scaffali aperti su cui erano sparsi libri che poi mi prestava. Un giorno mi lasciò il libro di un russo, Tolstoj si chiamava.
Una domenica mattina ero a casa mia, e non c’era niente da fare.
Buttai pane in una borsa di canapa, presi il libro di Tolstoj, andai al querceto.
Cercai l’ angolo d’ombra dove Gino mi aveva baciato i capelli, e la schiena, prima di partire soldato.
Stesa su erba secca lessi pagine, spazzolando via ostinate formiche dai fogli. Mangiai pane.
Ore dopo, si sentì lo sferragliare della littorina della sera. Lo scuro nascondeva le parole, gli occhi bruciavano.
Intorno, era buono l’odore delle querce.

Elena G.